Green deal europe: cosa nascondono le sue contraddizioni?
Green Deal europeo: tra obiettivi ecologici e realtà energetiche
Il Green Deal europeo è stato presentato come il pilastro centrale della transizione ecologica in Europa, con l’obiettivo di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra entro il 2030. Tuttavia, dietro le dichiarazioni ambiziose si nasconde una realtà complessa e piena di contraddizioni. Se da un lato l’Unione Europea impone regole stringenti per ridurre le emissioni, dall’altro continua a sostenere settori e tecnologie che consumano molta energia e producono ingenti quantità di CO2, tra cui il settore degli armamenti. Inoltre, il diritto alla riparazione dei beni tecnologici e la lotta contro l’obsolescenza programmata, che dovrebbero favorire la sostenibilità, sembrano essere sacrificati sull’altare dell’industria tecnologica.
Il piano Marshall di Draghi e il ruolo del Green Deal
Il “Piano Marshall” di Mario Draghi, presentato nel 2024 come parte del sostegno militare europeo all’Ucraina, ha sollevato non poche polemiche. Mentre l’Unione Europea continua a imporre limiti alle emissioni di CO2 e spinge verso una transizione verde, gli investimenti in settori ad alto consumo energetico, come quello degli armamenti, continuano a crescere. Questo pone una domanda fondamentale: come può un piano apparentemente orientato alla sostenibilità ambientale conciliare il finanziamento di industrie che emettono grandi quantità di gas serra?
Come già spiegatogià spiegato su Economia Spiegata Facile, (leggi qui la versione sintetica) il piano Draghi è emblematico delle contraddizioni insite nelle politiche europee.
Come si conciliano la spinta alle future tecnologie follemente energivore (di conseguenza ad alto impatto ambientale e fonte di abbondanti emissioni di gas serra) come: la mobilità elettrica, i super computer, la blockchain, le monete digitali come il futuro euro digitale e l’intelligenza artificiale, con gli obiettivi ecologici?
E poi, da un lato, vengono imposti obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni, come il Fit for 55, che prevede una riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030. Dall’altro lato, però, l’Europa continua a investire in settori inquinanti, spostando la produzione in paesi come la Cina e delocalizzando le emissioni, come evidenziato nel libro di Economia Spiegata Facile. Questa contraddizione rende il Green Deal europeo una strategia difficile da difendere quando si analizzano i numeri.
La crisi energetica e la transizione ecologica: chi paga il prezzo?
Dal 2020 l’economia ha iniziato a segnare un aumento drammatico dei prezzi dell’energia in Europa, portando con sé una spirale inflazionistica che ha colpito duramente cittadini e imprese. Le cause dell’aumento dell’inflazione sono molteplici e complesse e tutte enumerate e sviscerate approfonditamente dal libro di Economia Spiegata Facile.
Nella fattispecie:
- la globalizzazione e tilt della catena degli approvvigionamenti;
- i confinamenti (lockdown) nel periodo pandemico;
- il crollo del PIL;
- le tensioni geopolitiche;
- il crollo dell’Euro sul Dollaro;
- la siccità;
- le speculazioni finanziarie
ma si intrecciano strettamente con le difficoltà strutturali del Green Deal europeo. Da un lato, la crisi energetica è stata scatenata dalle tensioni geopolitiche, in particolare dalle sanzioni imposte alla Russia e dalla conseguente riduzione delle forniture di gas. Questo ha portato a un’impennata dei costi delle risorse energetiche tradizionali, aggravando un sistema già sotto pressione a causa della transizione verso fonti rinnovabili.
Tuttavia, la crisi energetica è solo una parte del problema. L’inflazione è stata alimentata anche dalla crescente competizione con i Paesi emergenti, come Cina e India, che non sono vincolati agli stessi standard ecologici imposti dal Green Deal. Mentre l’Europa si impone regole sempre più severe per ridurre le emissioni, questi Paesi continuano a crescere sfruttando tecnologie più inquinanti e meno costose. Il risultato è che le industrie europee si trovano a competere in condizioni di svantaggio, dovendo sostenere costi energetici e ambientali molto più elevati, mentre i prodotti a basso costo provenienti dall’Asia continuano a inondare il mercato globale.
A tutto questo si aggiunge un’incompatibilità di fondo tra gli obiettivi del Green Deal e le tecnologie e gli standard di produzione energetica attualmente disponibili. Le rinnovabili, pur essendo essenziali per il futuro, non sono ancora in grado di sostituire completamente le fonti fossili, né di garantire la stabilità del sistema energetico. Questo ha portato a una dipendenza continua dalle risorse tradizionali, come il gas naturale, e a un paradosso per cui la transizione ecologica, invece di ridurre i costi, li ha fatti aumentare.
Nel complesso, le politiche del Green Deal, pur con lodevoli intenzioni, sembrano essere state implementate nel momento meno opportuno. Il peso di queste scelte, comprese le tasse ambientali come la carbon tax, si è riversato direttamente sui consumatori, contribuendo all’aumento dei prezzi. La crescente disuguaglianza tra Europa e i Paesi emergenti, unita all’impreparazione tecnologica delle infrastrutture energetiche, rende chiaro che la transizione ecologica richiede tempi più lunghi e una pianificazione più attenta di quanto inizialmente previsto.
Obsolescenza programmata e diritto alla riparazione: un’opportunità mancata
Uno dei punti più critici del Green Deal riguarda l’obsolescenza programmata e il diritto alla riparazione. Nonostante l’Unione Europea si presenti come leader mondiale nella lotta all’inquinamento, le sue politiche non sembrano essere in linea con questo impegno quando si parla di tecnologia. Secondo un articolo de La Repubblica, solo il 4% degli elettrodomestici in Europa è coperto dalle nuove normative che incentivano la riparazione, lasciando fuori il restante 96%. Questo dato allarmante solleva dubbi sull’effettivo impegno dell’UE nella riduzione dei rifiuti elettronici, che rappresentano una delle principali fonti di inquinamento.
L’obsolescenza programmata, una pratica comune tra i produttori di tecnologia, continua a essere un problema centrale. Prodotti progettati per guastarsi dopo pochi anni costringono i consumatori a sostituirli piuttosto che ripararli, generando un ciclo continuo di consumo che aggrava l’impatto ambientale. Le politiche europee sembrano favorire l’industria tecnologica piuttosto che proteggere i consumatori e l’ambiente.
Gli investimenti della BCE in aziende inquinanti: un paradosso ecologico
Mentre l’Unione Europea si impegna pubblicamente nella lotta al cambiamento climatico, le azioni della Banca Centrale Europea (BCE) raccontano una storia diversa. Secondo un’inchiesta de Il Fatto Quotidiano del 2021, la BCE continua a investire in aziende altamente inquinanti, comprese quelle che utilizzano combustibili fossili. Questo paradosso evidenzia una delle più grandi contraddizioni del Green Deal: mentre si chiedono sacrifici ai cittadini e alle imprese per ridurre le emissioni, le istituzioni europee continuano a sostenere i settori più dannosi per l’ambiente.
L’industria fossile, nonostante le promesse di transizione verso fonti rinnovabili, rimane un pilastro degli investimenti della BCE. Questo è particolarmente problematico se si considera che l’Europa è al centro delle trattative globali per ridurre le emissioni di CO2. Nonostante gli impegni assunti a livello internazionale, le azioni della BCE mostrano che le priorità finanziarie spesso prevalgono su quelle ambientali.
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Google e i mini-reattori nucleari: un futuro sostenibile o un paradosso energetico?
L’espansione tecnologica è un altro settore in cui le contraddizioni del Green Deal emergono in modo evidente. Un articolo de Il Fatto Quotidiano del 2024 mette in luce come Google, uno dei più grandi consumatori di energia al mondo, stia puntando sui mini-reattori nucleari per alimentare i suoi data center. Questa scelta solleva importanti domande sull’efficacia delle politiche europee in materia di sostenibilità tecnologica.
La domanda energetica dei giganti tecnologici è in continua crescita, e l’adozione di tecnologie nucleari, pur essendo presentata come una soluzione “verde”, porta con sé nuove sfide. Il nucleare, pur essendo una fonte a basse emissioni di CO2, presenta rischi ambientali significativi legati alla gestione dei rifiuti radioattivi e alla sicurezza degli impianti. Inoltre, l’adozione di queste tecnologie da parte di aziende private come Google solleva dubbi sulla capacità delle istituzioni europee di gestire l’espansione di settori ad alto consumo energetico.
Il Green Deal è davvero una strada verso un mondo più pulito?
Le contraddizioni del Green Deal europeo sono evidenti. Da un lato, l’Unione Europea impone leggi severe per ridurre le emissioni e promuovere la sostenibilità. Dall’altro, le sue stesse istituzioni continuano a sostenere settori inquinanti e ad ignorare questioni chiave come l’obsolescenza programmata e il diritto alla riparazione.
Il quesito finale rimane aperto.
Escludendo l’operazione di greenwashing (visto che non si intravedono vantaggi per le industrie, lo scopo del Green Deal è realmente quello di creare un mondo più pulito, o stiamo semplicemente preparando il terreno per l’introduzione di sistemi di controllo come il carbon credit, che limiteranno la libertà dei cittadini in base alla loro impronta ecologica? Le azioni dell’Unione Europea, finora, suggeriscono che la transizione ecologica potrebbe essere guidata più da interessi economici e di controllo sulle masse, che da una reale volontà di salvaguardare l’ambiente.
Ad avvalorare questa illazione c’è anche la recente introduzione della normativa che prevede che i tappi delle bottigliette di plastica debbano rimanere attaccati al collo della bottiglia.questa norma stride e contrasta in modo evidente con i dati riguardanti la capacità di riciclare di cui la cittadinanza europea e in particolare quella italiana possono vantare.
I dati sulla “differenziata” Dimostrano che gli italiani sono un popolo europeo più virtuoso.
D’altro canto le ricerche e le statistiche dimostrano che a produrre il 90% della dispersione di plastica negli oceani, sono 10 fiumi in particolar modo; tutti situati in Cina, India, Sud America, Africa.
Ma allora perché dunque normare in modo assurdo là dove non ce n’è bisogno?
Ma questa domanda apre a divagazioni che affronteremo in un altro articolo.





